martedì 20 dicembre 2016

Falli soffrire..gli uomini preferiscono le stronze!





Uscito in italiano nei primi mesi del 2006, questo libro si è conquistato in pochissimo tempo un posto d’onore nelle librerie di molte donne, compresa la mia. Un piccolo manuale guida ai segreti dell’altra squadra, e un vademecum eccezionale per ricordare ad ogni donna il proprio valore, un best seller mondiale e una lettura sconveniente ma obbligatoria.

Accattivante, diretto, tagliente. Un libro che fa ridere, che fa riflettere, che mette a fuoco piccole e grandi verità del rapporto donna uomo. Un libro che conquista sin dalle prime pagine per il tono ironico,irriverente e decisamente irresistibile.

Gli uomini preferiscono le stronze: verità o provocazione?

Credo entrambe le cose. Quante volte ci siamo imbattute in donne dal temperamento forte e combattivo che pur non essendo niente di speciale dal punto di vista fisico avevano al loro fianco uomini splendidi che pendevano dalle loro labbra? E viceversa, quante volte si vedono donne bellissime scaricate continuamente dai loro partners? Cosa possiedono le prime donne che le seconde non hanno? Dov’è il trucco?

Prima o poi è successo a tutte, di essere troppo carine, troppo disponibili e sempre presenti, di passare ore ad aspettare una telefonata e di compiacere un uomo oltre ogni aspettativa anche se conosciuto da poco.
La “sindrome da brava ragazza” è un virus che chi più chi meno abbiamo contratto tutte almeno una volta nella vita, ma da cui fortunatamente si può guarire!
Per scoprire cosa, poi? Che gli uomini preferiscono quelle che non si fanno sempre trovare, che si concedono una volta sì e tre no, e che non sembrano troppo bisognose.

Una “stronza” in poche parole. E per quanto se ne dica, di una cosa bisogna prendere atto: gli uomini adorano le donne che li fanno stare sulle spine, chi li rimette al loro posto se alzano troppo i toni, chi ha passioni e interessi al di fuori della coppia. Gli uomini adorano le donne indipendenti che non si fanno mai prendere del tutto, che hanno un atteggiamento forte, intrigante e allo stesso tempo femminile.

Questo libro è una guida alle relazioni di coppia rivolta alle donne “troppo premurose”, le classiche brave ragazze, e l’espressione stronza deve essere usata con leggerezza, come leggero è il tono di tutto il libro.

La stronza in questione non è una donna irritante, maleducata, che tutti detestano, sia ben chiaro. E’ semplicemente una donna che conosce il proprio valore, dotata di una sana autostima, che non rinuncia alla sua vita e non darà mai la caccia a un uomo. 
E cosa fondamentale sa mantenere il sangue freddo quando le situazioni lo richiedono, e questo le permette di esercitare il suo potere quando necessario. Mantiene la calma sotto pressione, ha il pieno controllo di sé e pensa con la propria testa, senza il timore che qualcuno la disapprovi.
Questa donna non vive secondo gli standard di qualcun altro ma solo secondo i propri. E’ indipendente, forte e determinata, e ribadisce senza mezzi termini che se è in una relazione non lo è per bisogno ma per scelta. E questo fa un’enorme differenza.

Scritto in maniera accattivante e decisamente provocatoria, questo libro non insegna come “accalappiare” un uomo e non dice mai che senza un compagno una donna è incompleta. E’ invece un libro sulla fiducia in se stesse e sull’autostima e una guida divertente ma acuta a come dire addio alla “brava ragazza” che si “zerbinizza” quando incontra un uomo interessante ( o che lei presume sia tale, perché care amiche mie tutte sappiamo che spesso l’unico scopo (con la o aperta) degli uomini, è lo scopo (con la o chiusa).

La stronza di cui si parla è una donna che ha capito tutto. Una che sa che se non ti senti all’altezza senza un uomo non sarà certo un uomo a farti sentire all’altezza, e che una relazione può farti felice solo se lo sei già di tuo, o se non vogliamo usare questo termine ormai inflazionato (ma che io adoro) solo se hai già una vita appagante, piena, che ti permette di essere chi sei senza compromessi. e allo stesso tempo di condividere il tuo mondo con un compagno alla pari senza bisogni reciproci da soddisfare.

E guarda caso una donna che ama la sua vita e se stessa indipendentemente da un uomo ha in mano l’arma di seduzione più potente che ci sia, perché gli uomini adorano le donne che sprigionano forza vitale ed autonomia, che si fanno rispettare e non si sminuiscono per loro. Anzi, che magari li fanno anche penare un po’. Una donna forte ma dolce, determinata ma morbida, intelligente e riservata, ma passionale al momento giusto.

Perché se un bell’aspetto è sicuramente un ottimo biglietto da visita, è una bella testa il passepartout che apre ogni porta.


Stronza è bello..;)

sabato 17 dicembre 2016

Il giocattolo sospeso...






E mentre sul canale musicale di Sky passa musica natalizia 24 ore su 24 e fuori torna il sole dopo giornate cupe, umide e nebbiose, io mi sento felice, grata, pienamente dentro questo momento, reso ancora più intenso dall’avvicinarsi del Natale.

Si dice che a Natale si è tutti più buoni, e forse un piccolo fondo di verità c’è. Magari dura il tempo delle feste e poi si torna quelli di prima, ma almeno in questo periodo si respira magia nell’aria e si ha la sensazione che le richieste che si fanno col cuore abbiano una marcia in più per vedere la luce ed avverarsi.

Sarà questo il Miracolo del Natale? Una speranza che si credeva persa e che invece in questi giorni torna ad ardere dentro di noi?

Sta di fatto che mentre nel mondo si consumano guerre, violenze e tutto il peggio che si può immaginare, ci sono piccole iniziative che fanno pensare che forse il genere umano non ha proprio fallito del tutto, e che la speranza di un’umanità più coesa e unita da un obiettivo comune che è vivere insieme collaborando possa esistere ancora.

Come tutte le grandi cose parte dai piccoli, dagli anonimi, dalla gente comune. Per quanto si dica degli italiani, siamo un popolo con un grande cuore, e quello che sto per raccontarvi lo dimostra.

C’è un’usanza partenopea che si chiama il” Caffè sospeso”. Si entra un bar, e dopo aver bevuto il caffè se ne lascia un altro pagato per un futuro cliente bisognoso. Questa usanza viene condivisa anche in altre parti del mondo, dove si lasciano colazioni pagate per chi ha bisogno ma non ha la possibilità di acquistarla. Questo piccolo gesto di solidarietà è in realtà la dimostrazione che ogni giorno nel cuore e nella mente delle persone c’è un pensiero per chi non è altrettanto fortunato da potersi permettere una bevanda calda e un momento ristoratore.

Non c’è bisogno di gesti eclatanti per fare la differenza. Certo a natale ha tutto un altro sapore, ma la vera magia è che succede tutto l’anno.

Ma quest’anno c’è un’altra iniziativa che scalda il cuore e pone l’attenzione sui veri protagonisti del Natale, i bambini, con i loro desideri e la luce negli occhi in attesa del panciuto signore con la barba che in una sola notte porta i regali ai bimbi di tutto il mondo.

Accanto all’ormai famoso caffè sospeso,  appare il “giocattolo sospeso”, iniziativa del comune di Napoli per permettere a tutti i bambini, soprattutto i meno fortunati, di mantenere viva dentro di loro quell’emozione e curiosità che purtroppo,a causa di condizioni disagiate, a volte viene soffocata.

Il principio è lo stesso: si compra un giocattolo in uno dei punti che partecipa all’iniziativa, e se ne lascia uno pagato per un bimbo “bisognoso”. Chi effettua la donazione viene inserito in un “elenco dei benefattori” e per ritirare il dono basta presentare un documento di identità valido.

C’è chi potrebbe obiettare che l’iniziativa è volta anche a migliorare gli introiti dei negozi partecipanti, e che non è necessario donare giocattoli nuovi ma anche usati in buone condizioni, ed è vero, ma non è questo lo spirito dell’iniziativa, almeno secondo me.

Mi immagino la gioia di un genitore che entra in un negozio e ritira un gioco nuovo per il suo amato figlio, gioco che magari non si sarebbe potuto permettere altrimenti. E’ diverso dall’accontentarsi di qualcosa di semi nuovo pur in ottime condizioni per mancanza di possibilità.
Forse è un balsamo per il cuore e per la dignità sapere di poter regalare al proprio bambino qualcosa con cui nessuno ha mai giocato, qualcosa per il quale lui sarà il primo e si sentirà speciale.

Spendiamo tanti soldi in stronzate, scusate il francesismo, che iniziative così semplici eppure emotivamente così forti scaldano davvero il cuore e dovrebbero essere proposte ovunque, perché ovunque ci sono bambini che credono in un sogno,che hanno desideri e speranze che non andrebbero deluse, almeno a Natale.

Se del consumismo non si può ormai più fare a meno, almeno che sia emotivamente condiviso, e che la famosa frase “Auguri a e te e famiglia “abbia un senso reale anche quando non sappiamo chi la riceverà.


Buon Natale…tutti i giorni! :)

martedì 13 dicembre 2016

Nel nome dei social....





Social network e privacy non vanno decisamente d’accordo. Sono un po’ come quelle amiche che fingono di piacersi ma in realtà non si sopportano.

Mi fanno morire dal ridere quelle persone che invocano la legge sulla privacy e poi postano su Facebook, Instagram,e via dicendo ogni momento della giornata, da quando la mattina cercano di togliere l’appiccicume degli occhi per vedere la luce a quando si abbandonano fra le braccia di Morfeo( sarà lui a fare l’ultimo scatto?)

Quando ero bambina, guardavo dalla finestra le luci accese nelle case vicino alla mia, e pensavo: “Chissà cosa stanno facendo le persone che abitano in quella casa in questo momento?”

I social network rispondono proprio a questa domanda e ci permettono di sbirciare nella vita degli altri e mostrare pezzetti della nostra, di affacciarci alla finestra delle loro esistenze e guardare dentro. Ma sono anche altri i bisogni che i social soddisfano: quello di essere visti (magari da qualcuno in particolare), di nutrire quel bisogno di essere al centro dell’attenzione  che tutti, chi più chi meno, coviamo dentro, di mostrare al mondo che nonostante l’età che avanza ci difendiamo ancora bene, o,dall’altra parte, che nonostante la giovane età abbiamo comunque qualcosa da dire.

Esibizionismo e voyeurismo sono due aspetti che i social nutrono con amore se rimaniamo in superficie, perché come in tutte le cose ci sono anche aspetti positivi che non possono essere tralasciati.
Chi vuole comunicare all’esterno la propria verità, trova nei social un pubblico molto vasto, che sarebbe difficile da raggiungere diversamente. Il ritorno mediatico, la pubblicità, la visibilità che il contenitore dei social offre è immenso, e anche chi scrive da un luogo sperduto sul cucuzzolo della montagna può raggiungere chiunque nel mondo. Portare avanti una causa e usare i social per diffondere l’informazione è una mossa vincente, perché tutti sono raggiungibili in questa maniera, e sulla quantità qualcuno che condivide il pensiero e decide di farlo proprio c’è senza ombra di dubbio.

Il problema nasce quando la vita sui social diventa quella vera, quando cioè ci si parla nei post, invece di farsi una sana telefonata ( in cui si sente il tono della voce, il suono di una risata, etc), quando si mandano messaggi ambigui che spingono gli altri a chiedere cosa è successo, tipo “Mattinata al pronto soccorso” e alla domanda”cosa è successo” la risposta è “tranquilla, te lo dico in privato”. E allora che cazzo lo scrivi su Facebook che tanto lo sai che chi legge chiede? O tutto o niente, o dentro o fuori, un po’ di coerenza.

Perché c’è questo bisogno di far sapere a tutti cosa si fa per poi ritirarsi nel silenzio alla prima domanda. Abbiamo davvero la necessità di condividere con tutti la nostra vita, i nostri interessi, di mettere sul piatto tutto quello che facciamo? Che poi se qualcuno inizia a spettegolare la risposta che diamo è”fatti gli affari tuoi! Tu che ne sai?”. Uno sa quello che l’altro pubblica, e si fanno dei film a volte sulle parole, sulle immagini, perchè questo è il mondo social.

Siamo in un grande Truman Show.

Che poi preso con leggerezza è anche divertente, è’ un passatempo a volte vedere cosa combinano gli altri, che pensieri condividono, quali iniziative simpatiche ci sono in giro. Con leggerezza però, perché il “troppo stroppia” sempre, e farsi prendere la mano è un attimo.

Sul podio della falsa provocazione e del cattivo gusto ci sono quelli che scrivono post su problematiche importanti quali il cancro, la sindrome di down, etc nella speranza, forse, di sensibilizzare l’opinione pubblica su questi aspetti. La cosa che sfugge a queste persone è che non sanno chi legge i loro post, e che il metodo che usano  per scuotere la coscienza è il più misero e abbietto.

“So che tu che leggi non hai vissuto questo dolore….so che non condividerai perché non sei stato toccato…copia e incolla sul tuo profilo per dimostrare che sei vicino alla causa..nessuno mi farà gli auguri perché sono diversa/o…copia sul tuo profilo (immagine di un bambino in un letto di ospedale) e non andare oltre senza scrivere Amen…e via dicendo”.

Ora, sono incappata in uno di questi messaggi proprio la settimana scorsa. Probabilmente chi lancia queste pseudo provocazioni tentando di agganciarsi al buon cuore o sensibilità delle persone non pensa che fra i lettori c’è invece chi ha realmente vissuto certe situazioni, o forse crede che le persone siano tutte cretine o che non entrino mai in contatto con un disagio.
Oltre a farmi una grande tristezza, questi post mi fanno arrabbiare da matti, e per questo motivo ho risposto in maniera cruda e senza mezzi termini a uno di loro. Sfortunatamente per me, io rientro nella categoria delle persone che quel dolore lo ha vissuto, e mi sento profondamente offesa da chi usa certe modalità per richiamare l’attenzione su problematiche importanti che meritano rispetto prima di ogni altra cosa.

Basta davvero condividere un’immagine triste o post strappalacrime per mettere a posto la coscienza? Che poi magari quando ci sono le raccolte fondi non viene dato neanche neanche un ero?

Ma tranquilli, abbiamo condiviso un post, siamo a post!


venerdì 2 dicembre 2016

La gente è tutta buona se la sai condire!!






Presa dal contesto in cui viene detta, non lascia presagire nulla di buono, visto che a proferirla è stato Annibal Lecter nel Silenzio degli Innocenti.

Per capirci, lui è quello che quando dice di avere un amico per cena tralascia il fatto che l’amico è anche la cena! 
Sono quei sottointesi che, a saperlo prima, uno magari ci pensa due volte prima di accettare, rimandando magari la partita di calcetto e acquistando anche un buon vino per accompagnare il cibo.
Guardata però da un’altra angolazione, questa frase si inserisce perfettamente nell’atmosfera buonista del clima natalizio. Natale porta sicuramente l’attenzione sulla necessità di un maggior ascolto e apertura verso gli altri, ma non compie nessuna magia se non ci mettiamo del nostro. 

Il famoso “Miracolo del Natale”dovrebbe essere un proposito che non rimane solo un’idea ma diventa azione dopo che le feste sono finite, e invece non fa in tempo a passare la befana che siamo di nuovo stronzi come prima. Lo stesso Babbo Natale è in terapia da anni ormai, non riesce a farsi una ragione del fatto che questo speciale momento dell’anno sia diventato solo la festa degli addobbi, dei regali, del tripudio di ogni tipo di leccornia e della falsità mascherata col sorriso.

“Auguri a te e famiglia”, e poi per i restanti 364 giorni dell’anno alla famiglia manco un saluto. La stessa cosa vale sui social. Centinaia di amici, auguri a tutti, e dal giorno dopo di nuovo nella conigliera.

Di cosa stiamo parlando? Quanto deve continuare questa farsa? Non è ora di fare basta?

Le persone sono molto meglio di quello che crediamo se cerchiamo un contatto reale  e sincero. Poi mica tutti sono la simpatia in persona, ma c’è del buono in ognuno e potenzialità che emergono se diamo loro la possibilità di venir fuori.

Cosa significa”condire una persona?”

Pensate a cosa succede quando condite un piatto, cosa fate? Aggiungete ingredienti per valorizzarne i sapori ed esaltarne il gusto. La stessa cosa vale con le persone. Se aggiungiamo ai rapporti che abbiamo i nostri migliori ingredienti, quella relazione assumerà un sapore diverso, e l’altra persona sarà portata a tirar fuori il meglio di sé per contribuire alla riuscita del “piatto”.

La gente è tutta buona se la sai condire.

Se sai valorizzare il buono che c’è negli altri, ti stupirai continuamente di quanto le persone siano in realtà diverse da come sembrano o da quello che fanno vedere.
A volte basta una parola gentile per abbattere muri, basta non fermarsi all’apparenza per scoprire che ci sono tesori nascosti dietro a porte che nessuno apre mai.

Diversi anni fa la posta nel mio condominio veniva consegnata da un postino che non rivolgeva la parola a nessuno, che rispondeva in maniera brusca e tutto sembrava tranne che simpatico. Un giorno mi chiede di scendere per firmare una raccomandata, col suo solito tono euforico da serial killer. Arrivo al cancello, era inverno e faceva un freddo cane. Gli dico allora dopo averlo salutato:
“Senta, non abbiamo ammazzato nessuno, venga in casa che le offro un caffè caldo. Mica vorrà che lo beva da sola?”
Incredibile ma vero: la sua espressione corrucciata si è sciolta in un sorriso, abbiamo bevuto il caffè, scambiato quattro chiacchiere e quando l’ho salutato e ringraziato per il suo lavoro, mi ha detto che nessuno era mai stato così gentile con lui, anzi. Le persone sono scorbutiche, maleducate e il suo atteggiamento era diventato uguale a quello degli individui con cui aveva a che fare ogni giorno.

Inutile dire che è stato il mio postino preferito per anni, fino a quando non è andato in pensione. E nel suo ultimo giorno di lavoro ci è venuto a salutare e si è pure commosso.

E ultima cosa, ma non certo per importanza, non era Natale.

Quindi direi di tirar fuori la valigetta con le spezie e iniziare a condire la nostra vita e quella delle persone che incontriamo con un po’ di estro e un briciolo di follia.

Buon week end Masterchef de noartri!!!


sabato 26 novembre 2016

Regredire per evolvere...



E’ possibile “regredire” per “evolvere”?

Se per regredire si intende ritrovare il contatto con la natura e con la propria anima, la risposta è sì.
Esiste un posto al mondo dove gli uomini vivono in comunione gli con gli altri, aiutandosi reciprocamente e crescendo spiritualmente , nel rispetto della natura e degli spiriti che la permeano.
Questo luogo magico e affascinante si trova in Scozia, ed è la comunità di Findhorn, da più di cinquant’anni esempio mondiale di eco sostenibilità, spiritualità e riscoperta di una dimensione sacra del lavoro e della vita
                                                  
 



Era il 1962 quando Peter ed Eileen Caddy insieme ai loro tre figli e alla segretaria Doroty Maclean  rimasero senza lavoro, e siccome gestivano un albergo, oltre al lavoro persero anche la casa. Decisero così che l’unica cosa da fare in attesa di trovare un nuovo lavoro fosse trasferirsi nel campeggio della baia di Findhorn dove avevano lasciato una vecchia roulotte.


                                                            

 


Il tempo passava ma di un nuovo lavoro nemmeno l’ombra. Sembrava che l’Universo stesse architettando tutto per permettere loro di creare qualcosa di incredibile, che avrebbe ispirato nel tempo migliaia di persone in tutto il mondo e condotto l’umanità verso il risveglio della coscienza e il recupero di un profondo rapporto con la natura.

Per risparmiare decisero di coltivare un orticello. L’impresa poteva sembrare impossibile allora perché il terreno in quella zona era costituito da sabbia, sassi e abitato da insetti e animali che rendevano veramente difficile la crescita degli ortaggi. Ma per loro fu diverso, perché non erano soli.


                                                       
Durante le varie meditazioni a cui si dedicavano giornalmente, ricevettero indicazioni precise su come coltivare il terreno rispettando la natura da “voci” che furono attribuite da Doroty MacLean ai Deva, spiriti della natura che li guidarono a creare uno dei giardini più famosi e rigogliosi al mondo. Consigli semplici eppure efficaci su come coltivare il terreno, come concimarlo con alghe di mare, cenere di frassino e sfruttare gli stessi insetti che inizialmente potevano sembrare un ostacolo. I risultati non tardarono a mostrasi.

Su questo terreno impossibile da coltivare iniziarono a crescere ortaggi di dimensioni mai viste, come cavoli rossi di 15/20 chili, broccoli enormi, rose che crescevano anche sotto la neve, fiori di tutte le specie e sempre più grandi del normale. I primi ad accorrere per vedere il prodigio furono gli abitanti dei dintorni, ma ben presto si unirono a loro anche esperti pedologi, che non credendo ai loro occhi decisero di analizzare campioni di terreno per capire come fosse possibile un risultato così incredibile. 
Con grande stupore scoprirono che la terra era perfettamente bilanciata e priva di qualsiasi componente chimico o artificiale. Accorsero allora giornalisti, TV e l’orticello di Findhorn si affacciò al mondo.     


   
    
Ma la domanda che tutti si ponevano era: “Come avevano fatto?”

Con l’unico ingrediente capace di rendere speciale ogni cosa: l’Amore.

Ed è ancora questo il principio che guida la comunità di Findhorn da più di cinquant’anni, amore e comunicazione con la Natura e un ascolto profondo di quella voce interiore che sa cosa è giusto fare e cosa è meglio per noi.
Lo scopo dell’orto era quello di creare una comunità educativa che vivesse in armonia col tutto e imparasse ad ascoltare la propria intuizione e i messaggi che l’Universo, Dio, chiamatelo come volete, aveva in serbo per loro e per tutti noi.

Se era stato possibile far fiorire fiori e ortaggi in quel luogo impervio, si poteva far fiorire anche gli uomini, e portarli alla consapevolezza che dentro di loro c’era qualcosa che valeva la pena coltivare sempre.

E oggi,dopo più di cinquant'anni, Findhorn è forse una delle comunità educative e spirituali più note al mondo, e uno degli esempi più riusciti di eco villaggio, dove sostenibilità ambientale, sociale ed economica camminano di pari passo con lo sviluppo del potenziale umano e la salvaguardia del Pianeta terra.
I cittadini, per esempio, usano solo vetture elettriche, producono energia grazie a pale eoliche o pannelli solari, purificano l’acqua attraverso un sistema biologico di trattamento dei liquidi. Inoltre i cento edifici in cui vivono gli abitanti sono realizzati con materiali naturali come legno, sughero, pietra e mattoni.
Ci sono anche una serie di case costruite con vecchie botti di whisky gentilmente donate da distillerie locali. Se non è recupero questo?!

      


Findhorn’ una comunità spirituale aconfessionale, dove tutti sono accolti con grande libertà e rispetto, senza nessuna costrizione o manipolazione e che si fonda su tre principi: lavorare seguendo la propria voce interiore; lavorare con Amore ( il lavoro è considerato amore in azione); lavorare in collaborazione con la natura. Ognuno partecipa a un’attività giornaliera utile per la comunità, che può essere aiutare in cucina, nell’orto, fare le pulizie, e così via.


 


A Findhorn viene condivisa l’idea che l’umanità sia impegnata in un processo di evoluzione della coscienza che genera civilizzazione e una cultura planetaria impregnata di valori spirituali.
E’ per questo che i loro seminari sono un riflesso della ricerca della sacralità in ogni aspetto della vita, creando nuovi modi di interazione tra lavoro, vita, ambiente e dialogo interiore, in un clima di onestà e amore. 
La grande lezione della comunità e’ lo spirito di Comunione, cioè di comune unione, che porta a stare insieme in modo diverso, favorendo una profonda comprensione del rapporto con gli altri e con ciò che ci circonda.

La comunità oggi conta circa cinquecento membri fissi, ma è visitata da persone provenienti da tutto il mondo, che decidono per periodi più o meno lunghi di entrare in questo luogo magico dove ciò di cui tutti parlano esiste già da molto tempo.

Quando si va a Findhorn per la prima volta si partecipa a un programma iniziale che si chiama “Settimana di Esperienza”, ed è il modo ideale per scoprire questa splendida realtà, che invita a lasciar andare i propri limiti, aprirsi all’Amore e diventare il cambiamento che vorremmo vedere nel mondo. Questo periodo di tempo offre l’opportunità di sperimentare i principi su cui si basa la comunità e partecipare a tutte le attività della fondazione, come meditazioni, danze sacre, passeggiate nella natura, lavoro in uno dei vari settori della comunità e condivisioni di gruppo.

 

     
A Findhorn le persone non sono numeri. Pensate che quando si fa domanda per la settimana di esperienza, viene richiesta da parte della Fondazione una lettera di presentazione che parli di noi, e questo non solo per farci conoscere un po’ in anticipo, ma per permettere loro di preparare il giusto programma per noi.

Non viene certo richiesto un curriculum vitae, ma una panoramica onesta e semplice della nostra vita : le scelte di vita che abbiamo fatto, le persone importanti per noi, ciò che ci ispira, le sfide, i desideri, e perché abbiamo deciso di partecipare a questa esperienza.

La comunità non è un ente con fini di lucro, e si sostiene attraverso le donazioni.
Inoltre i prezzi per partecipare alla settimana di esperienza o ai seminari e programmi vari  variano in base alle risorse economiche
Questo significa che a seconda delle possibilità economiche viene chiesto di scegliere in coscienza quale cifra si vuole pagare, tenendo conto che la cifra più bassa copre appena le spese del programma e dell’ospitalità completa. La cifra media è quella reale del corso e quella più alta permette si di partecipare che di sostenere i partecipanti con maggiori difficoltà.

A Findhorn, infatti, esiste un fondo di aiuto finanziario per chi vive in difficoltà economiche ma vorrebbe comunque fare questa esperienza, e da diverso tempo, ormai, si lavora sul concetto di dono (che è diverso da quello di solidarietà) come forma di supporto agli altri.

Ho riflettuto molto su questo loro punto di vista, e per quanto sottile credo che una differenza ci sia davvero. Secondo me, la solidarietà, per quanto nobile e benedetta, parte da un presupposto di compassione verso gli altri, di desiderio di aiutare e alleggerire le difficoltà della vita. Il dono, invece, ha come presupposto l’Amore, il desiderio di condividere una gioia con un’altra persona. E’ un concetto più elevato che riguarda lo sviluppo di una nuova coscienza umanitaria.

In un’epoca in cui tutti parlano di eco sostenibilità, salto quantico, nuova coscienza e chi più ne ha più ne metta, c’è chi alle parole ha sostituito i fatti, e lo ha fatto mezzo secolo fa, continuando a credere e a diffondere nel mondo una reale alternativa alle condizioni di vita attuali.

Findhorn è come una serra, dove si può crescere psicologicamente e spiritualmente in poco tempo, perché qui avvengono grandi cambiamenti interiori. Quando si torna in mezzo al mondo si è fortificati e pronti a ricominciare la propria vita in modo più consapevole” (Peter Caddy)


Con profonda gratitudine …

mercoledì 23 novembre 2016

Destino o fattore "C"?





Si dice che la fortuna sia cieca ma che la sfiga ci veda benissimo.

Cosa succede però se per una volta la dea bendata si toglie il velo dagli occhi e guarda proprio noi e noi, invece, le voltiamo le spalle?

Ho fatto questa riflessione guardando l’ultima puntata di “X Factor”, quando uno dei gruppi più votati dall’inizio della competizione ha deciso di mollare tutto e rinunciare alla grande opportunità che questo format televisivo dà a chi vuole fare della musica il proprio lavoro.
Sto parlando dei Dainalu, un duo formato da una ragazza con una voce particolarissima e un aspetto che a tratti ricorda una creatura fiabesca, e il suo compagno, che suona più strumenti e si occupa della parte musicale. Sono due ma sembrano un complesso.

Animati dal desiderio di riscatto e da una passione che trasuda dai pezzi che presentano, hanno fatto colpo non solo sui giudici ma anche sul pubblico, che li ha sostenuti sin dall’inizio, mandandoli avanti nella competizione senza esitazione.

Il loro sogno si stava realizzando. La vita, l’Universo, il destino, chiamatelo come volete, aveva ascoltato il desiderio del loro cuore aprendo loro tutte le porte. Erano nel flusso.

Eppure a un certo punto qualcosa si è rotto dentro di loro, e si sono accorti che il contenitore televisivo non era nelle loro corde e che il ritmo convulso di ciò che avevano scelto per dare voce al loro talento li aveva inghiottiti.

Forse.

E se fosse invece che avevano smesso di credere in quel sogno? O che non si sentissero meritevoli di tutto quel successo e dell’affetto delle persone che magari vedevano in loro un esempio concreto di tenacia e fede? In questo caso la scelta che hanno fatto, in modi e tempi alquanto discutibili, avrebbe un senso. Se non mi sento meritevole creerò dei meccanismi di sabotaggio tali per cui ciò che penso di non meritare si avvererà.
E’ molto semplice.
Non è facile gestire il fallimento, ma non lo è nemmeno gestire il successo. 

E se non ci si sente all’altezza delle situazioni si farà in modo di evitarle, in un modo o nell’altro.
E’ anche vero che non si può conoscere un certo meccanismo fino a quando non se ne fa esperienza, ma se sappiamo già in principio che a certi compromessi non sappiamo scendere, perché imbocchiamo proprio quella strada? Cosa vogliamo dimostrare e soprattutto a chi vogliamo dimostrarlo?

La loro scelta, per quanto sentita, è stata un voltare le spalle a un dono che la vita probabilmente non gli farà più, perché certe occasioni capitano una sola volta e sono quei momenti in cui se sai cavalcare l’onda arrivi alla terra promessa. Ma come dicevo sopra, devi sentirti in grado di poterlo fare.  Magari arriveranno lo stesso ai loro obiettivi passando da un’altra strada, oppure, a mente lucida, rimpiangeranno per tutta la vita questa scelta irruenta e ingrata.

Cosa succede se si rifiuta un regalo che la vita ci fa? Che meccanismo scatta quando possiamo realizzare un sogno e decidiamo invece di rinunciare, bruciando un’opportunità più unica che rara?

L’universo si ricorderà ancora il nostro indirizzo o ci metterà nella lista nera di chi ha ricevuto il prodotto che aveva ordinato, lo ha provato e poi lo ha rimandato al mittente?

Quando diciamo di voler realizzare un sogno, siamo davvero disposti a prendere il pacchetto completo o preferiamo rimanere nelle retrovie dove non è necessario crescere e dimostrare una forza che forse non abbiamo?

In compenso un gruppo che inizialmente era stato scartato, per un gioco del destino è stato ripescato e sta procedendo con gioia e determinazione verso la finale, e un altro cantante per il quale uno dei giudici si è battuto fino alla fine e che lotta senza risparmiarsi per dimostrare di meritare di essere lì, per la decisione dei Dainalu è rimasto in gara quando invece sarebbe stato eliminato.

E’ il gioco di X Factor dentro al gioco del destino, che sta muovendo abilmente i fili delle situazioni per dare a chi vuole davvero, togliere a chi non crede di meritare e spingere avanti chi non molla mai.

Scrivete bene il vostro indirizzo….non si sa mai…

mercoledì 16 novembre 2016

Il tempo di un caffè...






Un tavolo, quattro sconosciuti, una moka di caffè, e venti minuti per parlare.

Questo è l’esperimento sociale a cui ho partecipato domenica 13 Novembre a Santarcangelo di Romagna, nei locali della Biblioteca Comunale durante la Fiera di San Martino.

L’evento è stato organizzato dall’Associazione Recidivo, “un centro di riuso/recupero creativo dei materiali di scarto sociale con lo scopo di promuovere atteggiamenti ecologicamente ed eticamente corretti in un’epoca di consumismo spregiudicato”.

Con questo esperimento curioso e stimolante si è voluto recuperare qualcosa che viene spesso sprecato o al quale, a volte, non si dà la giusta importanza: il tempo.

E da buoni italiani, quale miglior occasione per incontrarsi se non il tempo di un caffè? 

L’iniziativa, aperta a tutti, è stata accolta con curiosità ed entusiasmo da uomini e donne di ogni fascia di età, sottolineando l’esigenza profonda di tornare a relazionarsi con gli altri in maniera “reale”, in un’epoca in cui il virtuale e il tecnologico sembra abbiano preso il posto delle parole dette e degli sguardi che si incontrano.





Al centro del tavolo una scatola con tanti foglietti, su ognuno dei quali era scritta una“parola” che suggeriva il possibile argomento della conversazione. Tutto nella massima libertà, perché da quello spunto si poteva spaziare ovunque.
La nostra parola era ASCOLTO, e noi abbiamo fatto questo a turno, ascoltato chi ci stava raccontando il suo punto di vista, la prospettiva da cui guarda il mondo, riflettendo sul fatto che oggi non solo è difficile relazionarsi con gli altri ma spesso quando si parla con qualcuno non lo si ascolta neanche, presi magari da cosa dobbiamo fare dopo o facendoci distrarre da messaggi e notifiche del mondo parallelo.
Proprio per evitare la contaminazione tecnologica, i nostri cellulari sono stati messi in un’altra scatola e riposti altrove fino alla fine dell’esperimento. 

Mi piace chiamarlo così un po’ perché lo è stato davvero, un po’ come provocazione, perchè vi sembra normale che nel XXI secolo sia considerato un esperimento parlare a voce con altre persone piuttosto che inventare il teletrasporto?

E invece è così. La tecnologia, l’illusione di una vita reale in mondi virtuali, la frenesia quotidiana con cui viviamo ogni situazione sono diventate entità che gestiscono la nostra vita e dalle quali sembriamo dipendere come i sudditi dal sovrano. Sembra non ci sia più tempo per nulla, non siamo più noi a gestire la nostra vita, ma è il contrario.

Ecco allora che il tempo di un caffè diventa una conquista e un atto rivoluzionario.

In quei 20 minuti il tempo si è dilatato e ha abbracciato tutti noi. Abbiamo parlato in totale libertà, senza alcun imbarazzo o timore del giudizio altrui, curiosi di sapere chi avevamo davanti e cosa avevamo da dirci. 
Persone con vissuti diversi, età diverse ma un comune denominatore: la curiosità di partecipare a un progetto in cui l’individuo fosse il protagonista e il tempo di un caffè un momento per se stessi strappato alla frenesia quotidiana.
Che poi 20 minuti possono sembrare molti, ma in realtà sono un battito di ciglia. Quando si è immersi in una conversazione piacevole, leggera ma profonda allo stesso tempo, i minuti volano. 
Quando si ascolta un perfetto sconosciuto, che in quel momento diventa però un compagno di avventura, condividere il suo pensiero e il suo sentire senza filtri o inibizioni, la distanza fra le persone crolla. Il caffè, poi, è il collante perfetto e il portavoce ufficiale degli incontri fra le persone. Non è un caso che quando ci si voglia incontrare con qualcuno si dica : “Ci prendiamo un caffè ?”


Il tempo di un caffè è la metafora perfetta per suggerire alle persone di ritagliarsi del tempo per sé, per relazionarsi con gli altri “come una volta”, parlando, ascoltandosi davvero, guardandosi, recuperando quel valore umano che oggi sembra perso.
Non serve mezza giornata, bastano anche 10 minuti per entrare in una dimensione intima e personale sganciata dalla tecnologia e dai rumori del mondo. Dobbiamo viverla la nostra vita, non subirla.

Sicuramente l’ambiente messo a disposizione per questo esperimento ha facilitato l’incontro e il mettersi in gioco delle persone, ma secondo me è lo stato d’animo che si è creato che ha fatto la differenza e che ha riportato fortemente l’attenzione sulla necessità di tornare semplici ed immediati.
Secondo me le persone hanno un bisogno profondo di incontrarsi e condividere quell’umanità che oggi si è persa. Anche lo scontro su certi argomenti è una forma di incontro, e in ogni caso il confronto favorisce la crescita e l’espansione della coscienza.

Non vi nascondo che se avessi potuto rimanere seduta a quel tavolo per tutta la mattina lo avrei fatto. Non mi sembrava di parlare con degli sconosciuti, termine questo che a volte si addice anche a chi in realtà crediamo di conoscere. 
Eravamo entrati in una dimensione in cui l’ascolto e il confronto erano più importanti di ogni altra cosa. Guardando i miei compagni di caffè, non mi sono chiesta neanche per un istante chi fossero davvero, ma ho ascoltato le loro parole e vissuto pienamente quel momento senza alcuna distrazione, facendo mie le loro considerazioni e ampliando il mio bagaglio emotivo ed esperienziale. E il tempo è volato.
L’essere umano ha bisogno di nutrimento emozionale, e questa esperienza ha fornito proprio questo, emozioni.


Finito il tempo, chi voleva poteva lasciare un commento (rigorosamente in forma anonima) riguardo all’esperienza vissuta. C’è anche chi non ha scritto nulla, ma secondo me non certo perché non abbia ricevuto niente da questa esperienza, ma perché a volte non ci sono parole per descrivere un’emozione. Su quel foglio bianco ha lasciato il suo sentire che nessuna parola, evidentemente, poteva raccontare.
Nella sua semplicità questo esperimento è stato potente e ha sottolineato l’importanza di usare il tempo con intelligenza, privilegiando la qualità delle cose che facciamo e non la quantità delle stesse e soprattutto di essere presenti a noi stessi in qualunque momento, perché così facendo anche il tempo di un caffè può diventare un’esperienza stupefacente e la conoscenza di altre persone un viaggio ricco ed entusiasmante.
E il pensiero del cellulare è rimasto nella scatola insieme al telefono stesso.

Sicuramente e decisamente da riproporre.

Mi è rimasta solo una domanda che  forse è una piccola provocazione:
“L’ascolto è possibile solo se l’ambiente lo permette o dobbiamo essere capaci di creare dentro di noi quello spazio libero dai rumori del mondo in cui ascoltare noi stessi e gli altri?”

Grazie di cuore all’Associazione Recidivo per l’opportunità di ricordarci che siamo animali sociali  che necessitano di incontro e conoscenza reciproca, e grazie soprattutto a Massimo, Adriana e Michele, miei compagni di tempo e caffè per aver condiviso con me una pezzetto di viaggio.

Auguro a tutti “Il tempo di un caffè”..