Social network e privacy non vanno
decisamente d’accordo. Sono un po’ come quelle amiche che fingono di piacersi
ma in realtà non si sopportano.
Mi fanno morire dal ridere quelle
persone che invocano la legge sulla privacy e poi postano su Facebook, Instagram,e
via dicendo ogni momento della giornata, da quando la mattina cercano di
togliere l’appiccicume degli occhi per vedere la luce a quando si abbandonano
fra le braccia di Morfeo( sarà lui a fare l’ultimo scatto?)
Quando ero bambina, guardavo dalla
finestra le luci accese nelle case vicino alla mia, e pensavo: “Chissà cosa
stanno facendo le persone che abitano in quella casa in questo momento?”
I social network rispondono proprio a
questa domanda e ci permettono di sbirciare nella vita degli altri e mostrare
pezzetti della nostra, di affacciarci alla finestra delle loro esistenze e
guardare dentro. Ma sono anche altri i bisogni che i social soddisfano: quello
di essere visti (magari da qualcuno in particolare), di nutrire quel bisogno di
essere al centro dell’attenzione che
tutti, chi più chi meno, coviamo dentro, di mostrare al mondo che nonostante l’età
che avanza ci difendiamo ancora bene, o,dall’altra parte, che nonostante la
giovane età abbiamo comunque qualcosa da dire.
Esibizionismo e voyeurismo sono due
aspetti che i social nutrono con amore se rimaniamo in superficie, perché come
in tutte le cose ci sono anche aspetti positivi che non possono essere
tralasciati.
Chi vuole comunicare all’esterno la propria verità, trova nei
social un pubblico molto vasto, che sarebbe difficile da raggiungere
diversamente. Il ritorno mediatico, la pubblicità, la visibilità che il
contenitore dei social offre è immenso, e anche chi scrive da un luogo sperduto
sul cucuzzolo della montagna può raggiungere chiunque nel mondo. Portare avanti
una causa e usare i social per diffondere l’informazione è una mossa vincente, perché
tutti sono raggiungibili in questa maniera, e sulla quantità qualcuno che
condivide il pensiero e decide di farlo proprio c’è senza ombra di dubbio.
Il problema nasce quando la vita sui
social diventa quella vera, quando cioè ci si parla nei post, invece di farsi
una sana telefonata ( in cui si sente il tono della voce, il suono di una
risata, etc), quando si mandano messaggi ambigui che spingono gli altri a
chiedere cosa è successo, tipo “Mattinata al pronto soccorso” e alla domanda”cosa
è successo” la risposta è “tranquilla, te lo dico in privato”. E allora che
cazzo lo scrivi su Facebook che tanto lo sai che chi legge chiede? O tutto o
niente, o dentro o fuori, un po’ di coerenza.
Perché c’è questo bisogno di far sapere
a tutti cosa si fa per poi ritirarsi nel silenzio alla prima domanda. Abbiamo
davvero la necessità di condividere con tutti la nostra vita, i nostri
interessi, di mettere sul piatto tutto quello che facciamo? Che poi se qualcuno
inizia a spettegolare la risposta che diamo è”fatti gli affari tuoi! Tu che ne
sai?”. Uno sa quello che l’altro pubblica, e si fanno dei film a volte sulle
parole, sulle immagini, perchè questo è il mondo social.
Siamo in un grande Truman Show.
Che poi preso con leggerezza è anche
divertente, è’ un passatempo a volte vedere cosa combinano gli altri, che
pensieri condividono, quali iniziative simpatiche ci sono in giro. Con
leggerezza però, perché il “troppo stroppia” sempre, e farsi prendere la mano è
un attimo.
Sul podio della falsa provocazione e
del cattivo gusto ci sono quelli che scrivono post su problematiche importanti
quali il cancro, la sindrome di down, etc nella speranza, forse, di
sensibilizzare l’opinione pubblica su questi aspetti. La cosa che sfugge a
queste persone è che non sanno chi legge i loro post, e che il metodo che usano
per scuotere la coscienza è il più
misero e abbietto.
“So che tu che leggi non hai vissuto
questo dolore….so che non condividerai perché non sei stato toccato…copia e
incolla sul tuo profilo per dimostrare che sei vicino alla causa..nessuno mi
farà gli auguri perché sono diversa/o…copia sul tuo profilo (immagine di un
bambino in un letto di ospedale) e non andare oltre senza scrivere Amen…e via
dicendo”.
Ora, sono incappata in uno di questi
messaggi proprio la settimana scorsa. Probabilmente chi lancia queste pseudo
provocazioni tentando di agganciarsi al buon cuore o sensibilità delle persone
non pensa che fra i lettori c’è invece chi ha realmente vissuto certe
situazioni, o forse crede che le persone siano tutte cretine o che non entrino
mai in contatto con un disagio.
Oltre a farmi una grande tristezza, questi post
mi fanno arrabbiare da matti, e per questo motivo ho risposto in maniera cruda
e senza mezzi termini a uno di loro. Sfortunatamente per me, io rientro nella
categoria delle persone che quel dolore lo ha vissuto, e mi sento profondamente
offesa da chi usa certe modalità per
richiamare l’attenzione su problematiche importanti che meritano rispetto prima
di ogni altra cosa.
Basta davvero condividere un’immagine
triste o post strappalacrime per mettere a posto la coscienza? Che poi magari
quando ci sono le raccolte fondi non viene dato neanche neanche un ero?
Ma tranquilli, abbiamo condiviso un
post, siamo a post!
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