martedì 13 dicembre 2016

Nel nome dei social....





Social network e privacy non vanno decisamente d’accordo. Sono un po’ come quelle amiche che fingono di piacersi ma in realtà non si sopportano.

Mi fanno morire dal ridere quelle persone che invocano la legge sulla privacy e poi postano su Facebook, Instagram,e via dicendo ogni momento della giornata, da quando la mattina cercano di togliere l’appiccicume degli occhi per vedere la luce a quando si abbandonano fra le braccia di Morfeo( sarà lui a fare l’ultimo scatto?)

Quando ero bambina, guardavo dalla finestra le luci accese nelle case vicino alla mia, e pensavo: “Chissà cosa stanno facendo le persone che abitano in quella casa in questo momento?”

I social network rispondono proprio a questa domanda e ci permettono di sbirciare nella vita degli altri e mostrare pezzetti della nostra, di affacciarci alla finestra delle loro esistenze e guardare dentro. Ma sono anche altri i bisogni che i social soddisfano: quello di essere visti (magari da qualcuno in particolare), di nutrire quel bisogno di essere al centro dell’attenzione  che tutti, chi più chi meno, coviamo dentro, di mostrare al mondo che nonostante l’età che avanza ci difendiamo ancora bene, o,dall’altra parte, che nonostante la giovane età abbiamo comunque qualcosa da dire.

Esibizionismo e voyeurismo sono due aspetti che i social nutrono con amore se rimaniamo in superficie, perché come in tutte le cose ci sono anche aspetti positivi che non possono essere tralasciati.
Chi vuole comunicare all’esterno la propria verità, trova nei social un pubblico molto vasto, che sarebbe difficile da raggiungere diversamente. Il ritorno mediatico, la pubblicità, la visibilità che il contenitore dei social offre è immenso, e anche chi scrive da un luogo sperduto sul cucuzzolo della montagna può raggiungere chiunque nel mondo. Portare avanti una causa e usare i social per diffondere l’informazione è una mossa vincente, perché tutti sono raggiungibili in questa maniera, e sulla quantità qualcuno che condivide il pensiero e decide di farlo proprio c’è senza ombra di dubbio.

Il problema nasce quando la vita sui social diventa quella vera, quando cioè ci si parla nei post, invece di farsi una sana telefonata ( in cui si sente il tono della voce, il suono di una risata, etc), quando si mandano messaggi ambigui che spingono gli altri a chiedere cosa è successo, tipo “Mattinata al pronto soccorso” e alla domanda”cosa è successo” la risposta è “tranquilla, te lo dico in privato”. E allora che cazzo lo scrivi su Facebook che tanto lo sai che chi legge chiede? O tutto o niente, o dentro o fuori, un po’ di coerenza.

Perché c’è questo bisogno di far sapere a tutti cosa si fa per poi ritirarsi nel silenzio alla prima domanda. Abbiamo davvero la necessità di condividere con tutti la nostra vita, i nostri interessi, di mettere sul piatto tutto quello che facciamo? Che poi se qualcuno inizia a spettegolare la risposta che diamo è”fatti gli affari tuoi! Tu che ne sai?”. Uno sa quello che l’altro pubblica, e si fanno dei film a volte sulle parole, sulle immagini, perchè questo è il mondo social.

Siamo in un grande Truman Show.

Che poi preso con leggerezza è anche divertente, è’ un passatempo a volte vedere cosa combinano gli altri, che pensieri condividono, quali iniziative simpatiche ci sono in giro. Con leggerezza però, perché il “troppo stroppia” sempre, e farsi prendere la mano è un attimo.

Sul podio della falsa provocazione e del cattivo gusto ci sono quelli che scrivono post su problematiche importanti quali il cancro, la sindrome di down, etc nella speranza, forse, di sensibilizzare l’opinione pubblica su questi aspetti. La cosa che sfugge a queste persone è che non sanno chi legge i loro post, e che il metodo che usano  per scuotere la coscienza è il più misero e abbietto.

“So che tu che leggi non hai vissuto questo dolore….so che non condividerai perché non sei stato toccato…copia e incolla sul tuo profilo per dimostrare che sei vicino alla causa..nessuno mi farà gli auguri perché sono diversa/o…copia sul tuo profilo (immagine di un bambino in un letto di ospedale) e non andare oltre senza scrivere Amen…e via dicendo”.

Ora, sono incappata in uno di questi messaggi proprio la settimana scorsa. Probabilmente chi lancia queste pseudo provocazioni tentando di agganciarsi al buon cuore o sensibilità delle persone non pensa che fra i lettori c’è invece chi ha realmente vissuto certe situazioni, o forse crede che le persone siano tutte cretine o che non entrino mai in contatto con un disagio.
Oltre a farmi una grande tristezza, questi post mi fanno arrabbiare da matti, e per questo motivo ho risposto in maniera cruda e senza mezzi termini a uno di loro. Sfortunatamente per me, io rientro nella categoria delle persone che quel dolore lo ha vissuto, e mi sento profondamente offesa da chi usa certe modalità per richiamare l’attenzione su problematiche importanti che meritano rispetto prima di ogni altra cosa.

Basta davvero condividere un’immagine triste o post strappalacrime per mettere a posto la coscienza? Che poi magari quando ci sono le raccolte fondi non viene dato neanche neanche un ero?

Ma tranquilli, abbiamo condiviso un post, siamo a post!


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