A distanza di una settimana dal “Tempo di un caffè”, è tempo (scusate il gioco di parole) di qualche riflessione.
Avrei potuto scrivere qualcosa a caldo nei giorni stessi dello svolgimento di questo splendido esperimento, ma ho voluto far decantare il tutto per permettere ai contenuti salienti di venire a galla.
Come l’anno scorso, e forse meglio dell’anno scorso, più che un esperimento è stata una manifestazione di intenti, non solo quelli degli organizzatori, ma anche quelli di chi ha partecipato.
E sono stati tanti.
Ognuno con la sua storia, la sua curiosità, la voglia di incontrarsi di nuovo vis a vis e parlare.
Sì, parlare, come si faceva una volta. E di cosa si è parlato? Di tutto, di se stessi, della vita e di cosa ci si aspetta da questo pazzo mondo, il tutto partendo da una parola estratta casualmente da una scatola posta in mezzo al tavolo.
E da una parola si è spaziato ovunque, perchè ognuno dà un significato che è solo suo, che proviene dal suo vissuto e dalla sua sensibilità. E tutti questi significati hanno creato una storia, la storia di quella parola, raccontata da un gruppo di persone sorseggiando il caffè.
Una grande magia e un grande potere scaturisce da questi momenti, in fin dei conti, “all’inizio era il VERBO”, e dal VERBO iniziò tutto, la conoscenza, lo scontro, l’incontro ma in ogni caso un confronto che arricchisce e poi non si è più gli stessi.
Il freddo della tecnologia è rimasto chiuso in una scatola, mentre si è fatto spazio il calore degli individui, incuriositi e stimolati dall’incontro reale e non virtuale con altri appartenenti allo stesso genere, quello umano.
E dire che da piccoli ci dicevano sempre di non ascoltare gli sconosciuti… chi lo avrebbe detto che infrangere questa regola da grandi avrebbe regalato invece un momento di vicinanza e allegria senza pari?
Due giorni di ilarità, sorpresa, incanto, la partecipazione di un ragazzo straniero che non si è fatto intimidire dall’ostacolo della lingua, perchè non si comunica solo con le parole, ma anche con la presenza, lo sguardo, una stretta di mano, un sorriso.
Se bambini di nazionalità diversa posso giocare insieme, perchè non lo possono fare gli adulti? Non siamo forse bambini cresciuti? E allora, cosa ci siamo persi per strada, cosa non ci ricordiamo più?
In questa settimana di riflessione e ritorno alla vita “normale”, ho preso un po’ le distanze dalla tecnologia, preferendo ai messaggi le telefonate, e spesso anche un incontro veloce con gli amici, per un saluto, due chiacchiere, un abbraccio. Per guardarsi in faccia, insomma.
Se mi è mancato il mondo virtuale? Neanche un po’.
Se mi era mancato il CONTATTO con le persone? Non credevo così tanto fino a quando non ho riprovato la sensazione del vivere la vita vera.
Il tempo? Si trova! Se vogliamo lo troviamo, altroché.
Se invece vogliamo nasconderci dietro al “non ho tempo”, che la maggior parte delle volte è un “non ho voglia”, allora è un’altra cosa.
Certo, gli impegni sono tanti, la vita ci centrifuga e fagocita con le sue mille sfaccettature, ma siamo noi i padroni del nostro tempo, e siamo sempre noi che decidiamo se saltare o no sul treno.
Sta di fatto che fra ”USARE” e “SUBIRE” la tecnologia c’è una bella differenza.
Utilizzare strumenti veloci e immediati per ridurre le distanze e il tempo con cui si mandano comunicazioni o si interagisce con chi è a centinaia o addirittura migliaia di chilometri da noi è una grande conquista.
Aumentare le distanze con chi abbiamo vicino è invece una grande sconfitta.
Perchè vedete, l’uomo cerca sempre di migliorare le proprie condizioni di vita, è nella sua natura non accontentarsi della mediocrità, è nel suo destino l’evoluzione e il superare i propri limiti ( spesso autoimposti).
Ma la cosa che lo frega sempre è passare il timone della propri vita agli strumenti che lui stessi crea per migliorarne gli aspetti, finendo per soccombere alla pigrizia, all’indolenza e alla comodità, dimenticando i suoi reali bisogni e perdendo quell’umanità che rappresenta invece il nostro reale stato d’essere.
Sento dire molto spesso “Si stava meglio quando si stava peggio”, ma non è proprio così.
Quel si stava peggio non si riferisce alla vita che si conduceva allora, perchè penso che nessuno voglia tornare a momenti di austerità. Credo invece che venga usata impropriamente in riferimento alla mancanza di tutti gli strumenti che hanno invece sostituito oggi le relazioni umane. Lo hanno fatto, però, perchè noi glielo abbiamo permesso, perchè ci fa comodo, perchè ci siamo impigriti emotivamente e mentalmente, oltre che fisicamente.
Non posso fare a meno di chiedermi: qual è il problema di chi si sta soffocando con un cappio al collo se le estremità della corda è lui stesso a tenerle?
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