martedì 21 novembre 2017

Il tempo di un caffè....riflessioni..



A distanza di una settimana dal “Tempo di un caffè”, è tempo (scusate il gioco di parole) di qualche riflessione. 

Avrei potuto scrivere qualcosa a caldo nei giorni stessi dello svolgimento di questo splendido esperimento, ma ho voluto far decantare il tutto per permettere ai contenuti salienti di venire a galla.
Come l’anno scorso, e forse meglio dell’anno scorso, più che un esperimento è stata una manifestazione di intenti, non solo quelli degli organizzatori, ma anche quelli di chi ha partecipato. 
E sono stati tanti.

Ognuno con la sua storia, la sua curiosità, la voglia di incontrarsi di nuovo vis a vis e parlare. 
Sì, parlare, come si faceva una volta. E di cosa si è parlato? Di tutto, di se stessi, della vita e di cosa ci si aspetta da questo pazzo mondo, il tutto partendo da una parola estratta casualmente da una scatola posta in mezzo al tavolo.

E da una parola si è spaziato ovunque, perchè ognuno dà un significato che è solo suo, che proviene dal suo vissuto e dalla sua sensibilità. E tutti questi significati hanno creato una storia, la storia di quella parola, raccontata da un gruppo di persone sorseggiando il caffè.

Una grande magia e un grande potere scaturisce da questi momenti, in fin dei conti, “all’inizio era il VERBO”, e dal VERBO iniziò tutto, la conoscenza, lo scontro, l’incontro ma in ogni caso un confronto che arricchisce e poi non si è più gli stessi.
Il freddo della tecnologia è rimasto chiuso in una scatola, mentre si è fatto spazio il calore degli individui, incuriositi e stimolati dall’incontro reale e non virtuale con altri appartenenti allo stesso genere, quello umano. 

E dire che da piccoli ci dicevano sempre di non ascoltare gli sconosciuti… chi lo avrebbe detto che infrangere questa regola da grandi avrebbe regalato invece un momento di vicinanza e allegria senza pari?

Due giorni di ilarità, sorpresa, incanto, la partecipazione di un ragazzo straniero che non si è fatto intimidire dall’ostacolo della lingua, perchè non si comunica solo con le parole, ma anche con la presenza, lo sguardo, una stretta di mano, un sorriso.

Se bambini di nazionalità diversa posso giocare insieme, perchè non lo possono fare gli adulti? Non siamo forse bambini cresciuti? E allora, cosa ci siamo persi per strada, cosa non ci ricordiamo più? 
In questa settimana di riflessione e ritorno alla vita “normale”, ho preso un po’ le distanze dalla tecnologia, preferendo ai messaggi le telefonate, e spesso anche un incontro veloce con gli amici, per un saluto, due chiacchiere, un abbraccio. Per guardarsi in faccia, insomma.

Se mi è mancato il mondo virtuale? Neanche un po’.
Se mi era mancato il CONTATTO con le persone? Non credevo così tanto fino a quando non ho riprovato la sensazione del vivere la vita vera. 

Il tempo? Si trova! Se vogliamo lo troviamo, altroché.
Se invece vogliamo nasconderci dietro al “non ho tempo”, che la maggior parte delle volte è un “non ho voglia”, allora è un’altra cosa.
Certo, gli impegni sono tanti, la vita ci centrifuga e fagocita con le sue mille sfaccettature, ma siamo noi i padroni del nostro tempo, e siamo sempre noi che decidiamo se saltare o no sul treno.

Sta di fatto che fra ”USARE” e “SUBIRE” la tecnologia c’è una bella differenza. 
Utilizzare strumenti veloci e immediati per ridurre le distanze e il tempo con cui si mandano comunicazioni o si interagisce con chi è a centinaia o addirittura migliaia di chilometri da noi è una grande conquista.
Aumentare le distanze con chi abbiamo vicino è invece una grande sconfitta.

Perchè vedete, l’uomo cerca sempre di migliorare le proprie condizioni di vita, è nella  sua natura non accontentarsi della mediocrità, è nel suo destino l’evoluzione e il superare i propri limiti ( spesso autoimposti).

Ma la cosa che lo frega sempre è passare il timone della propri vita agli strumenti che lui stessi crea per migliorarne gli aspetti, finendo per soccombere alla pigrizia, all’indolenza e alla comodità, dimenticando i suoi reali bisogni e perdendo quell’umanità che rappresenta invece il nostro reale stato d’essere.

Sento dire molto spesso “Si stava meglio quando si stava peggio”, ma non è proprio così.
Quel si stava peggio non si riferisce alla vita che si conduceva allora, perchè penso che nessuno voglia tornare a momenti di austerità. Credo invece che venga usata impropriamente in riferimento alla mancanza di tutti gli strumenti che hanno invece sostituito oggi le relazioni umane. Lo hanno fatto, però, perchè noi glielo abbiamo permesso, perchè ci fa comodo, perchè ci siamo impigriti emotivamente e mentalmente, oltre che fisicamente.

Non posso fare a meno di chiedermi: qual è il problema di chi si sta soffocando con un cappio al collo se le estremità della corda è lui stesso a tenerle?



martedì 7 novembre 2017

La tazzina del diavolo...







Robusto, dolce, intenso ed eccitante, nervoso, corposo, oscuro ed accattivante…
Il caffè o lo si ama o lo si odia, non ci sono vie di mezzo, lo si colloca nel Paradiso dei sapori estatici o nell’inferno delle dipendenze viscerali.
La sua intrigante ritualità ha contribuito alla creazione di un mito di cui non si può più fare a meno.

La sua più grande qualità è resa nota già dal nome: quello arabo di “qahwa”( eccitante) dato dai mercanti che intorno all’anno mille riportarono dall’Africa questo prodotto poi chiamato in turco “kahve”e diventato poi il caffè diffuso dai mercanti veneziani sul fare del 17° secolo come “vino d’Arabia”. 

Eppure la bevanda che corrisponde alla mattutina preghiera quotidiana del 65% dei suoi consumatori (su una media mondiale di oltre 4 miliardi di tazzine consumate ogni giorno) di sacro non aveva proprio nulla: anzi, per quella pericolosa eccitazione provocata, la “bevanda del diavolo” venne inizialmente relegata più alle taverne che alle tavole altolocate.

Come uscire dal purgatorio della terra di mezzo per approdare alla spiaggia degli osannati e venerati dei pagani?
Semplicemente puntando al vertice, e fu proprio il rappresentante di Dio in terra a redimerlo dalla sua qualità di esiliato per farlo ascendere a quello di adorato.
Papa Clemente VIII, infatti, incuriosito da questo liquido malefico perché musulmano, decise che il peccato più grande sarebbe stato lasciare una bevanda così buona agli infedeli, e che l’unico modo per liberala dal peccato sarà stato ribattezzarla. 
La “bevanda di Satana” divenne quindi il “caffè” che tutti conoscono, e Venezia la prima città ad ospitare il primo”Caffè” nel 1640, in virtù del commercio esistente e della sua predisposizione all’apertura e alla “contaminazione”.

E la segue a ruota Parigi, città letteraria e mignotta, aperta alle rivoluzioni di ogni genere, culturali, mentali e sensoriali, che portò persino Luigi XIV ad inserire la sua coltivazione nel Jardin du Roi.

Il resto è storia, ma perché non raccontarne un po’?
In fin dei conti chi non ama curiosare nella vita degli altri? I social media insegnano in questo, o no?

Sappiate, cari amici, che nel 1732 Bach scrisse una meno conosciuta Coffee Cantata dedicata proprio al dolce gusto del caffè, e che il caro Beethoven non poteva fare a meno del suo caffè preparato con 60 grani esatti! 

Giuseppe verdi lo definì balsamo per il cuore e lo spirito, ma sul podio degli estimatori dell’ "oro nero” troviamo il re dei romanzieri  di Francia, talmente dipendente e ossessionato dalla bevanda del diavolo da berne (si dice) 50 tazze al giorno, e avergli dedicato un piccolo Trattato ( compreso in un più esteso Trattato sugli eccitanti moderni) come appendice a un’edizione della “Fisiologia del gusto” del gastronomo Brillat-Savarin.

Balzac spiegò, come solo lui poteva fare, le virtù del nero caffè:
“I ricordi arrivano a passo di carica e insegne spiegate, la cavalleria leggera del paragone parte al galoppo; l’artiglieria della logica accorre con treni e carrozze; lo spirito arriva in gran tiro; le figure si alzano e la carta si copre di inchiostro…”.

Lo amava, il caffè, non ci sono dubbi, anche se come spesso succede, le passioni uccidono! Morì infatti di crisi cardiaca a 51 anni!
Un’ingiustizia vera e propria se si pensa che Voltaire, invece, che ne bevve una quantità pressoché uguale unito al cioccolato, arrivò indenne agli ottant’anni!

Forse il suo segreto è stato esagerare, scatenando un picco glicemico evidentemente propedeutico alla creatività più spudorata!



Dolce o amaro, macchiato o schiumato, lungo o corto, espresso o americano, il caffè è il re indiscusso dei riti, aggravante per eccellenza in ogni relazione e rifugio indiscusso di ogni emozione…

“ Sei triste? Fatti un caffè!”
“Sei stanco?..Bevi un caffè”
“Mi piaci…ci facciamo un caffè?”
“Dobbiamo parlare…davanti a un caffè?”
“Ho voglia di qualcosa di buono….mi preparo un caffè”
“Sono confuso…mi ci vuole un caffè..”




Caffè ed emozioni, un connubio perfetto, i pezzi di un puzzle che si incastrano perfettamente, un mix micidiale ed estatico.

Il caffè parla il linguaggio dei sensi e si fa portavoce di parole non dette, si fa taxi privilegiato di sapori pungenti ma necessari.





Come il sesso, il cioccolato e la risata, del caffè non si può fare a meno..
E se fosse facile liberarsene, non si chiamerebbe ossessione

Buon caffè a tutti…;-)




martedì 31 ottobre 2017

PROFESSIONE MAMMA!!!






Dieci donne intorno a un tavolo che bevono il caffè e fanno le chiacchiere di prima mattina fanno confusione, ma dieci donne che sono anche mamme fanno il delirio! 
Completamente incuranti di dove sono, delle persone che hanno intorno e del rispetto che bisognerebbe avere in un luogo pubblico, hanno creato un’atmosfera così pesante da risultare insopportabile. 

Sembrava la riunione di una cosca che aveva come ordine del giorno la risoluzione di un problema, e come in ogni associazione che si rispetti, il boss prende la parola e impone il tono della conversazione. 
Il gruppo si spacca di fronte alle soluzioni proposte, la fazione armata contro la parte moderata, con un tono di voce talmente alto da rendermi difficile ascoltare anche i miei pensieri.

Ma a loro non interessa, devono risolvere un problema, e non si curano minimamente delle persone che invece vogliono solo ritagliarsi un momento per rilassarsi prima di andare al lavoro o affrontare semplicemente la giornata.
Donne che sono totalmente calate nel loro ruolo, che non hanno altri argomenti se non i loro figli, e che sembrano aver dimenticato anche le basi dell’educazione. (adesso mi spiego molte cose sulla maleducazione di tanti bambini).

Le osservo (e sento soprattutto) e mi sento profondamente diversa. Non che la sensazione sia nuova per me, anzi, o che mi interessi.
La diversità è qualcosa che mi accompagna da sempre, in cui mi sento a mio agio e che non ho mai cercato di nascondere.
Eppure sono mamma anche io, amo mio figlio sopra ogni cosa e per lui faccio e farò sempre tutto quello che è in mio potere, ma da qui a perdere la mia identità di donna a favore di quello di mamma proprio no. Mamma isterica e paronoica, poi, anche no.
Che problema hanno queste donne che fanno delle situazioni che gravitano attorno ai loto figli delle crociate in cui tirar fuori il peggio di loro?
E poi scusate, ma una vita vostra, al di fuori dei figli, non ce l’avete? Se non parlate di loro, dei loro interessi, dei loro problemi, etc, non avete altri argomenti? Come avete vissuto prima di diventare mamme? Chi eravate prima di essere genitore? Nessuno? 
Io certe cose proprio non le capisco. 

E non vuol dire che non sia una mamma attenta, anzi, ma non sono una posseduta!
A certe mamme, più che uno psicologo serve un esorcista! Fanno discorsi con certe espressioni del viso che fanno paura! Si trasfigurano completamente, e non solo perché è Halloween, ma perché hanno un problema!! 

Non posso fare a meno di chiedermi: ma quando i figli prenderanno la loro strada e si sganceranno dalle mamme ( sempre che le mamme glielo permettano), cosa faranno queste donne senza più un’identità?
Si ricorderanno chi sono, sempre che lo abbiano mai saputo?

E il loro ruolo di moglie e compagna, che molto spesso viene messo da parte fino a quando “i bimbi non crescono” che fine fa? E la relazione con il loro uomo? Reggerà i colpi di questa scelta a senso unico o perirà miseramente sotto i colpi dell’indifferenza, delle responsabilità e forse di qualcun’altra?
Sì perché non ci si può lamentare se il malcapitato di turno cerca altrove l’affetto e il calore che ogni persona desidera nella propria coppia, o sbaglio? Da protagonista della vita a due a semplice controfigura per un tempo indefinito in zero-due senza passare dal via. 
E alla domanda che molti uomini esasperati fanno: “E io?”
La risposta è quasi sempre “Le faremo sapere”!

Poi ci sono quelle come me che appena vedono i capannelli di mamme che fanno le chiacchiere cambiano strada, o fingono di parlare al telefono o arrivano di corsa a lasciare il putto a scuola e scappano via alla velocità della luce che Beep Beep in confronto è il maratoneta della domenica. 

E’ inutile, mi viene l’orticaria, mi sale un fastidio cosmico a sentire quelle chiacchiere inutili e superflue il più delle volte che non potete capire. Per non parlare dei gruppi WhatsApp di mamma. Scusate, non riesco a parlarne, mi sento male.

Ma scusate, le nostre mamme mica si comportavano da perfette psicopatiche, o ricordo male io? I compiti li facevamo da soli noi, mica con la supervisione costante di Joe Falchetto! E se non li avevamo scritti, una volta si telefonava all’amichetto e si chiedeva, ma la volta dopo si andava a scuola senza così la volta dopo ci saremmo ricordati!

Cosa è cambiato dal ruolo di mamma di qualche anno fa a quello di oggi?
Che oggi è diventata una PROFESSIONE e uno STATUS, non più un VALORE AGGIUNTO che rende una donna completa ( se la maternità è desiderata, ovviamente).
E’ un ruolo che viene ostentato e che deve avere il suo segno di riconoscimento, che molte volte, però, passa attraverso la maleducazione e l’esagerazione.

Non posso fare a meno di chiedermi: se usciamo dalle definizioni e dalle identificazioni che sembrano necessarie per avere un ruolo in questa società, sappiamo CHI SIAMO?

Non faccio di tutta l’erba un fascio, ma i fasci sono molti, sappiatelo!


Dal disagio è tutto.

mercoledì 25 ottobre 2017

Mondo gatto!!








Il mio povero nonno, che al tempo fece la prima guerra mondiale, si rivolterebbe nella tomba a una notizia del genere! 
Sì, cari miei, perché chi è cresciuto con l'idea (mica sbagliata, eh?) che il gatto debba catturare il topo, o lucertole o passerotti che siano, difficilmente concepisce questo cambiamento nello status quo della vita animale.

Un tempo il gatto aveva un "Umano di riferimento" da cui tornava dopo scorribande e tafferugli vari per rifocillarsi, stava all'aperto, cacciava e si accoppiava liberamente spargendo figli più o meno legittimi in ogni dove.

Non era sterilizzato, viveva la sua vita con quei piccoli compromessi necessari per avere un pasto nel caso la caccia andasse male, dormiva dove capitava se non rientrava in tempo per stare nel sottoscala o comunque al riparo, e rubava il cuore delle micie col suo fare mascalzone e ruffiano.
Oggi il gatto ha uno staff a sua disposizione, viene sterilizzato per non dover pagare gli alimenti alle gatte sedotte e poi abbandonate, vive in casa dividendo gli spazi con i suoi sudditi umani, mangia cibo di prima qualità e ha una vita sociale più attiva di una star del cinema.


Siccome la sua indole indipendente e un po' marchettara piace a molti (me compresa😂), perché ha capito alla grande come si vive, si è creata attorno alla sua immagine un business di tutto rispetto, e la sua compagnia, preferita da molti a quella umana, lo ha lanciato nell'olimpo degli Dei, ovvero di quelle figure che insegnano come stano le cose semplicemente essendo quello che è.

E il gatto è uno
STRONZO, perfettamente in linea con le figure più amate di sempre: l'uomo stronzo è quello che infrange i cuori, la donna stronza, felina e inafferrabile è quella che fa perdere la testa, e un atteggiamento stronzo, nel senso di indipendente, sicuro ma onesto (ti faccio vedere come sono, se ti piace bene altrimenti bene lo stesso) è vincente su tutto.



Quindi, da oltre oceano, non poteva che arrivare l'ultimo delirio in tema animalier, ovviamente un successo annunciato:
IL VINO PER GATTI E CANI, indispensabile per festeggiare il rientro a casa del loro umano preferito e ufficiale o tutte le occasioni importanti!
Noi umani non disdegnano un buon bicchiere di vino di rientro da una giornata di lavoro, perché allora non dovremmo condividere quel momento di relax col nostro amico peloso comodamente seduti sul divano?

Così, vicino al nostro Chardonnay ecco comparire il
MosCATo  😸, ovviamente analcolico, o lo CharDOGnay 🐶, per permettere ai nostri coinquilini di fare l'aperitivo come tutti, magari accompagnato da finger food a base di sushi o di Cosmic Gold scatolette perché si sa, un po' di fondino bisogna farlo, di qualità ovviamente.

E poi scusate, nascono dei gattini e non vogliamo fare un brindisi con i neo genitori, prima di dare in adozione i loro pargoli?
Inoltre una ricerca dell'ultimo periodo ha evidenziato che la vendita di prodotti per animali ha superato quella per i bambini, e vi ho detto tutto.



🤭
Che siano i migliori amici dell'uomo nessuno lo mette in dubbio, e neanche che siano migliori della maggior parte degli esseri umani esistenti sul pianeta, ma da qui a umanizzare la loro natura mi sembra un po' eccessivo, anche perché chi ci rimette, forse, sono proprio loro!

venerdì 7 luglio 2017

Parliamoci chiaro!




Girovagando nel mondo social mi capita sempre più spesso di vedere post in cui viene ribadito:
  1. che devi tenerti strette le persone quando le hai perché se le perdi te ne pentirai;
  2. Che le persone buone diventano più cattive delle cattive se prese in giro
  3. Che se hai tradito qualcuno la vita ti ripagherà allo stesso modo
E via dicendo…
Frasi che sembrano moniti diretti a qualcuno che però non viene nominato, messaggi in codice che nascondono fra le righe ben altri significati, tentativi forse di far arrivare un messaggio indiretto a chi di dovere. 

Allora, partendo dal presupposto che non possiamo pretendere che le persone interpretino i nostri messaggi criptati perché , uno non sono nella nostra testa, due forse non pensano sia diretto a loro e tre forse non gliene frega niente dei messaggi sui social, è così difficile dire le cose in faccia senza mandare messaggi subliminali che lasciano il tempo che trovano?

Non posso fare a meno di chiedermi: prima dei social come si faceva? Si scrivevano indovinelli sui foglietti di carta per poi lasciarli sotto il tergicristallo della macchina? O un rebus che poi veniva arrotolato e legato alla zampetta di un piccione messaggero? 
E mi chiedo anche: i segnali di fumo degli indiani d’America, erano messaggi chiari o lasciati alla libera interpretazione di chi li riceveva?

Cosa c’è di tanto spaventoso nel parlar chiaro con le persone dicendo quello che non siamo disposti ad accettare?
Facciamo tanto i gradassi sui social, e poi ci caghiamo nelle mutande quando una persona ce la troviamo faccia a faccia. 
La comunicazione nell’ultimo decennio ha subito un tracollo totale. Da una parte c’è chi la insegna e dall’altra una mandria di persone che non sa più mettere insieme una frase e preferisce lasciare a un post preconfezionato la responsabilità del proprio stato d’animo.

E dire che non dovrebbe essere difficile esprimere ciò che sentiamo. Se una cosa la vogliamo fare è SI’, se non la vogliamo fare è NO, se non sappiamo cosa fare è NON SO. 

Insegniamo ai bambini l’importanza di comunicare sinceramente cosa sentono e poi siamo i primi a non metterlo in pratica. Non possiamo lamentarci se poi non ascoltano, non hanno un buon esempio.
Che poi questo fatto di scrivere messaggi ambigui che dicono tutto e non dicono niente fanno ridere, soprattutto quando il curioso di turno (a ragione anche, perché lo legge su un post pubblico) chiede a chi sia riferito, e la risposta serafica è: la persona a cui è diretta lo sa. 

Ma cazzo mandaglielo in privato allora, o te la fai sotto? Perché ho notato una cosa sui social, tutti parlano ma pochi lo fanno chiaramente. Condividono aforismi ma un commento scritto di pugno è merce rara. Si nascondono dietro a frasi di altre persone (spesso famose) ma se devono esprimere un pensiero personale …guai!!

Quindi? Di cosa stiamo parlando?
Credo personalmente che i social siano uno strumento eccezionale per comunicare, per creare situazioni in cui il confronto (civile ed educato mi sembra sottinteso) può davvero essere costruttivo e intelligente, eppure l’uso che ne viene fatto è tutt’altro.

Possibile che uno schermo abbia sostituito l’interazione matura e sincera fra le persone?
Il coraggio di essere chiari e trasparenti era merce rara prima, figuriamoci adesso. Sembra che parlare chiaro sia il nuovo sport estremo, come i lanci che faceva Patrick de Gayardon con la sua tuta alare. Lui ci ha rimesso la vita , ma non aveva paura, e forse sapeva o desiderava che la fine del suo viaggio fosse proprio in quel modo.

Ma che problema hanno o che paura hanno, per meglio dire, le persone che non parlano chiaro, che si nascondano dietro a frasi preconfezionate ma che poi quando te le trovi faccia a faccia fanno vergognosamente finta di nulla?

Vogliono fare i duri ma poi temono il giudizio altrui. Vogliono fare quelli che portano avanti le proprie idee senza compromessi né condizioni ma piuttosto del confronto preferiscono rimanere nella penombra (giustificandosi magari dicendo di non voler creare tensioni, di non voler offendere nessuno, e così via), vogliono lanciare un messaggio ma si affidano alla presunta intelligenza del destinatario che dovrebbe capire che il messaggio è per lui. Vi rendete conto vero dell’assurdità e ridicolaggine di questo atteggiamento, che posso solo definire immaturo e puerile.
E’ come scrivere una cartolina senza indirizzo….potrebbe arrivare a chiunque…
E se arriva al destinatario sbagliato? 

La verità a volte fa male, ma almeno chi la riceve si sentirà rispettato, e rispetterà chi ha avuto il coraggio delle proprie azioni e dei propri pensieri.



Coerenza e maturità….queste sconosciute!

mercoledì 10 maggio 2017

Curiosità..




Sul mio profilo Facebook, alla dicitura “lavoro” c’è scritto: apro stanze nella mente con una sola chiave, la CURIOSITA’.

Mi è arrivato un messaggio privato, molto carino fra l’altro, che si chiudeva con questa frase: “Se dovesse avanzarti un’altra chiave, io la prenderei volentieri”. Mi ha strappato un sorriso, non lo nego, ma allo stesso tempo mi ha acceso una lampadina. Perché chiedi a me una chiave che in realtà tu hai già? E se non la trovi più, dove l’hai messa?

Dentro di noi non si perde mai nulla, è come una casa: nasconde ma non ruba. Eppure a volte si perdono cose importanti di cui ci accorgiamo solo quando qualcuno ce le ricorda.

Come possiamo dimenticarci della curiosità? Cosa è successo dentro di noi che ha spento uno degli interruttori del quadro generale? E come mai ci accorgiamo che la centralina sta fondendo solo quando uno dei fusibili fondamentali è al collasso?

Qui non stiamo parlando di un numero telefonico scomparso dalla rubrica, del nostro libro preferito che abbiamo prestato a non sappiamo più chi o del solito mazzo di chiavi che uscirà di nuovo appena ne faremo uno nuovo, ma della nostra curiosità, di quell’emozione che quando indossata ci spinge oltre, verso territori inesplorati, verso parti di noi che non ricordavamo o sapevamo di possedere.

E la curiosità, come i muscoli, la positività, la volontà, va allenata, altrimenti si spegne, perde il mordente che ha e che permette di vivere una vita sempre nuova e piene di sorprese.

Negli ani ’90 c’era un gruppo inglese chiamato “Curiosità killed the cat”, e un famoso adagio ricorda che “tanto va la gatta al largo che ci lascia lo zampino”, nel senso che a volte la curiosità ci frega, ma questo solo quando non siamo abituati a trattare con lei, quando cioè la facciamo avvicinare dopo tanto tempo che la tenevamo lontana.
Se invece ne facciamo il condimento di ogni momento, nuovo progetto, percorso di crescita e via dicendo, diventa la nostra migliore amica, e ci permetterà di scoprire di noi tante di quelle sfumature che non avremmo detto mai. Ci permette di conoscerci, e anche se sbagliamo e ripetiamo lo stesso errore più di una volta perché vogliamo vedere se questa volta andrà diversamente, non sarà mai tempo sprecato.

In fin dei conti “è meglio pentirsi di aver fatto male che pentirsi di non aver fatto”, dice un vecchio proverbio, e io sono in parte d’accordo. 

La curiosità ci mette in competizione con noi stessi, ci spinge a provare, ad andare oltre i limiti che ci siamo imposti o che crediamo di avere ma che in realtà non abbiamo, ci aiuta a scoprire il mondo, le opportunità a disposizione di chi tenta, di chi è abbastanza coraggioso per andare a vedere cosa c’è dietro la siepe.

La curiosità è donna, si dice, e in un certo senso è così, perché il genere femminile ha un giardino di emozioni molto più rigoglioso e vario di quello maschile, e poi vi ricordo che fu Eva la prima donna a farsi guidare dalla curiosità, con esiti un po’ discutibili ma questi sono dettagli.😉
In ogni caso chi è curioso non invecchia mai, non smette mai di sognare e forse non muore neanche mai…..come potrebbe altrimenti vedere cosa c’è dall’altra parte??

#becurious
#behappy
#befree


mercoledì 26 aprile 2017

Generazione "Anta"



Generazione “ANTA” non è il titolo di una nuova band, ma il brand dei nuovi adolescenti, degli adulti di nascosto, dei “diversamente giovani”, che nonostante il tempo che passa sono rimasti vivi dentro, non rassegnati all’età che cresce, ma sempre ben ancorati a quel fuoco che arde prepotente nel cuore di chi sente la vita in ogni sua parte.

Qualche giorno fa parlavo con un carissimo amico, che ha da poco passato gli anta, non i primi (Quaranta), ma i secondi( cinquanta), e mi ha confessato una paura che a volte assale anche me, quella di non avere più tempo per le cose belle della vita, come le passioni forti, che ti ricordano in ogni istante di essere vivo. Avete presente quando vi innamorate follemente di qualcuno e poi la storia finisce e vi ripromettete di non innamorarvi più per non soffrire ancora? Ma poi sperate con tutto il cuore che accada presto di nuovo perché senza quelle emozioni la vita non ha sapore? Ecco , è questa inquietudine che la generazione ”anta” ha paura di non avere più, quella di aver già sparato le cartucce migliori e non avere più il tempo e il modo per sentirsi “giovane”.

Che poi i giovani di oggi non sanno divertirsi e nemmeno godere appieno della loro magnifica età. Hanno tutto, non devono sudarsi nulla e perdono il gusto della conquista seguente alla fatica di dover dimostrare di avere gli attributi. Gli uomini non sanno più corteggiare perché le donne gliela danno la prima sera, e il gioco della conquista finisce lì.

La generazione “anta” viene da un mondo diverso,in cui dovevi inventarti di ogni per stupire la ragazza di turno, in cui dovevi essere in gamba per colpire il ragazzo più ambito. Era un tempo in cui dovevi sfruttare tutte le qualità che avevi per conquistare il tuo obiettivo, e a volte non bastava neanche quello. Eppure tutto quell’impegno, quel lottare, quel gioco di strategia valeva sempre la pena a prescindere dal risultato.

I ragazzi oggi vivono edulcorando la realtà, non si stupiscono davvero per niente e sembra non siano davvero coinvolti nella loro vita ma che la vivano e guardino come degli spettatori, con un distacco che a volte lascia basiti. Eppure le emozioni che vivono in questa fase della loro età sono le più belle, quelle che accendono, sconvolgono, fanno arrabbiare ma che poi in seguito riconosceranno come quelle necessarie per sentirsi vivi.

Parlando del figlio che ha poco più che vent’anni, il mio amico mi racconta di come non vede in lui quella passione per la vita che aveva lui alla sua età, quel gas che incendiava l’aria e quella voglia spasmodica di fagocitare le situazioni e non farsi scappare nulla. 
Non vede nei giovani di oggi l’attenzione al tempo che passa, la consapevolezza di quello che vivono e l’impegno per fare di ogni istante un momento memorabile, ma un incedere quasi annoiato nella vita.
C’è il lavoro nell’azienda di famiglia, ci sono i soldi, la macchina, il cellulare( che ha sostituito i rapporti interpersonali)c’è la possibilità di accedere facilmente a tutto, e di conseguenza la perdita di entusiasmo quando si ottiene qualcosa per la quale in realtà non si è investito più di tanto.

La generazione “anta” viene da un’altra scuola ed è incomprensibile per lei vedere ragazzi che si lasciano scappare occasioni importanti o che non vivono appieno le situazioni.
Quando si è ragazzi non ci si pensa a queste cose, ma quando il tempo passa e gli anni si fanno sentire,  quello che manca non sono i beni materiali, che sono sì importanti ma non fondamentali, sono le EMOZIONI.

La generazione “anta” teme di non aver abbastanza tempo per le emozioni che squarciano il petto e fanno sentire tremendamente vivi, temono cioè di avere il pane ma non i denti.
I ragazzi al contrario hanno i denti ma il pane non lo trovano neanche se glielo tiri nella schiena! Qual è il compromesso allora?

Ogni generazione ha il suo punto di forza e la sua debolezza, e della generazione attuale il punto debole è sicuramente quello di non assaporare fino in fondo il gusto della conquista, perché in realtà non fa alcuna fatica ad ottenere niente.

La generazione “anta” invece teme di non aver più modo di cavalcare l’onda, e questo crea uno sconforto e un disagio che colpisce nel profondo e che a volte spinge uomini e donne ad infilarsi in avventure ai confini della realtà.


Non posso fare a meno di chiedermi: come mai fino a una certa età il tempo sembra andare al rallentatore e subito dopo iniziare a scorrere alla velocità della luce? Dov’è l’inganno o l’interruttore che rallenta questa corsa? 

E perché di tutto quello che può mancare sono sempre le emozioni che vincono il banco?